CAPITOLO VIII – Martedì, 3 luglio 1990
Tragitto: KARDAMYLI / AREOPOLIS / GYTHIO
Chilometri percorsi parziali/totali: 71 (di cui
GIORNATA ALL’INSEGNA DELLA SFORTUNA PIÚ TOTALE: TRAGITTO IMPERVIO, SOPRESA ALLE GROTTE DI AREOPOLIS E COSTO INTUILE DEL TAXI….E, INFINE, IL DISASTRO AI MONDIALI IN ITALIA-ARGENTINA. IL LATO OSCURO DELLA SGIFA SI È IMPOSSESSATO DEFINITIVAMENTE DI NOI
CRONACA:
Dopo una straziante notte tra i soliti assordanti versi delle cicale ed il rombo di motori, apriamo gli occhi e tentiamo di riappropriarci dei nostri arti, che essendo diventati autonomi, non reagiscono al nostro volere: la perdurante pressione di una roccia sulla spalla ha praticamente “necrotizzato” il mio braccio e mi impedisce di utilizzare l’arto per alzarmi. Ci vogliono diversi minuti prima che il sangue riprenda a circolare regolarmente nei vasi sanguigni del braccio, ridandogli nuova vita.
Sono le otto e siamo ancora completamente, irrimediabilmente e costantemente rincoglioniti, ma nulla ci può fermare, siamo pronti per affrontare un’altra grande sfiga…ehm…sfida!!
La meta di oggi si rileva sì faticosa, ma fattibile. Vorremmo raggiungere Areopolis per poter tagliare da lì la penisola Messenica e dirigerci verso Gythio sulla costa orientale del tridente peloponnesiaco centrale. Areopolis è quindi una tappa intermedia imprevista che abbiamo scelto per poter visitare le grotte di cui ci hanno parlato molte persone locali. La curiosità ha quindi determinato il tragitto.
Proseguiamo con regolarità, prima passando in pianura quei tratti che costeggiano il mare ed in seguito su e giù per le basse montagne.
A sette chilometri da Areopolis affrontiamo una delle discese più insidiose mai incontrate: un lunghissimo rettilineo con una pendenza micidiale ci fa schizzare l’adrenalina fin dentro il midollo. Io e Marc, fermi prima del precipizio, ci guardiamo. Un sorriso complice esprime la cosciente incoscienza ed il perfetto allineamento mentale:
“Si va?”, “Certo….e senza frenare!!”, “Speriamo solo che non si smonti la bici!!”, “Ah, ah, ah,…vince chi non casca!!” scherziamo ironicamente prima di spingere con grinta sul pedale per acquisire più velocità possibile prima della discesa.
Con la schiena incurvata pedaliamo fino a quando la velocità inerziale supera quella ottenibile dalle nostre gambe ed il contachilometri di Marc inizia ad invadere la zona rossa del quadrante per poi bloccarsi definitivamente sui 70km/h, termine massimo di fabbrica consentito dal tachimetro. Il manubrio vibra violentemente e la borse sul portapacchi posteriore ondeggiano quanto basta per rendere più difficile mantenere l’equilibrio perfetto. Osservo la ruota anteriore girare ad una velocità mai vista prima d’ora emettendo un fortissimo ronzio della gomma sull’asfalto. “Fai che non si buchi proprio ora….!”, penso con quel minimo di razionalità che mi è rimasta.
Giungiamo indenni alla fine della discesa. Abbiamo appena fatto qualche centinaio di metri ad un velocità che difficilmente riusciremo a replicare. L’adrenalina ci fa urlare a squarciagola per l’esperienza appena passata ed i successivi minuti vengono accompagnati da risate tipiche da chi è conscio di aver superato ostacoli potenzialmente “letali”.
La gioia e l’azzardo hanno però il loro prezzo, a maggior ragione per noi qui in Grecia: non abbiamo percorso nemmeno tre chilometri in compagnia del fragore del mare che, appena la strada svolta verso destra evitando il versante sulla sua sinistra, ci si presenta invece una salita interminabile con solo un paio di tornanti, necessari per raggiungere i trecento metri di dislivello. Parrebbe che manchino poco più di quattro chilometro ad Areopolis, ma dopo aver disperso le ultime energie con lo sfogo di adrenalina di poco prima, questa fatica ci sembra impossibile da poter essere superata.
Inseriamo la prima marcia, quella della velocità a passo d’uomo, ed iniziamo a pedalare.
Dopo neanche un chilometro in poco meno di mezz’ora e sotto il solito sole cocente, Marc inizia a dare i primi segni di squilibrio mentale, canticchiando una canzoncina olandese che ricorda molto le note della canzone dei pirati con i suoi “quindici uomini, quindici uomini, sulla cassa del morto”. Ci manca solo di scorgere un avvoltoio disegnare ampi cerchi sopra le nostre teste ed il panico avrebbe iniziato a prendere il sopravvento.
“Dai, manca solo un chilometro alla meta”, grido a Marc esortandolo, “non molliamo!”.
All’ennesimo tornante con curva a gomito, noto come Marc sia rimasto molto indietro ed arranca con estrema fatica. Anche io ormai sono all’estremo delle forze ed il sudore ha completamente impregnato i miei indumenti. Il caldo asfissiante non mi permette di riprendere un fiato ristoratore, anzi aumenta la mia necessità di aria e di bere qualcosa di fresco, ma nelle nostre borracce c’è solo acqua calda.
Senza alcuna minima possibilità di trovare un ristoro sotto l’ombra e con i muscoli doloranti dalla fatica, mi fermo sull’argine della strada sedendomi sull’asfalto che emana un calore inenarrabile, braccia incrociate sulle ginocchia e testa china verso il basso nel tentativo di recuperare le forze. Le gocce di sudore mi entrano negli occhi facendomeli bruciare e non so come asciugarmi, visto che sono completamente lavato.
Osservo Marc che mi sta raggiungendo, ma noto che è in riserva. Non ce la fa davvero più, si ferma vicino a me e chiede un po’ di pausa. Il caldo però è insostenibile e allora decido di procedere da solo per valutare quanto effettivamente manchi alla meta, in modo da poter poi ritornare da Marc ed incentivarlo a dare l’ultimo sforzo. Lui acconsente, e così mi avvio con l’acido lattico che mi brucia nelle gambe e le tempie che non smettono di pulsare sangue caldo.
Non ho ancora fatto duecento metri in prima e con i muscoli in fiamme, che sento avvicinarsi un’automobile alle mie spalle. Non ne passano molte, oggi.
Mi supera e non le avrei nemmeno degnato di uno sguardo, se non fosse che ho notato che al finestrino del lato passeggero si era arpionato con una mano quel moribondo di Marc.
Mentre mi sorpassa mi saluta, sorridendo, con un innocente “Ciao, ci vediamo ad Areopolis…!”.
Resto a bocca aperta: dei connazionali olandesi, vedendolo sull’argine della strada e comprendendo la sua necessità, gli avevano offerto uno strappo offrendogli di aggrapparsi alla macchina. E così ha fatto.
Fortunatamente, girato l’angolo, un’ampia curva sulla cresta della montagna, intravedo Areopolis e la strada che diventa pianeggiante. Marc è lì sorridente che mi aspetta. Sono felice per lui, anche se dentro di me l’invidia lotta con la comprensione.
Il paese è semideserto probabilmente per l’ora calda. È un borgo di poche case costituito principalmente da case in pietra: sono costruzioni squadrate, realizzate a secco, molto caratteristiche e diverse dai più frequenti e classici edifici intonacati di bianco con finiture e tetti in blu. La posizione del paese è strategica: alle spalle troneggia un ampio altopiano mentre l’Egeo avvolge il promontorio su cui si trova Areopoli.
Siamo troppo affamati e disidratati per poter visitare i vicoli. Preferiamo dirigerci direttamente verso le grotte per poter trovare lì un po’ di ristoro dalla calura soffocante. Inforchiamo alcuni bivi seguendo la segnaletica che ormai si limita ad indicare le località solamente con l’alfabeto greco. Con le ultime forze raggiungiamo il sito. Notiamo stranamente che c’è poca gente in giro, nessuna coda alla biglietteria.
“O siamo fortunati oppure le grotte fanno schifo” sentenzio senza troppi complimenti. Purtroppo né una né l’altra opzione sono il motivo di tale desolazione, che avremmo di gran lunga preferito rispetto all’amara scoperta che abbiamo dovuto apprendere. Ci avviciniamo alla biglietteria. Un cartello solitario scritto a mano in greco ed in inglese domina la bacheca. Una sola parola, ma che non permette fraintendimenti: “STRIKE”…sciopero!
Io e Marc ci guardiamo. Non possiamo crederci. Restiamo inizialmente senza parole, poi partono alcune imprecazioni che però si perdono nell’aria per mancanza di forze. Siamo ancora sotto il sole ed il bar è chiuso anch’esso, così come l’ingresso alle grotte. “Cosa facciamo?” ci chiediamo. Raccogliamo le nostre ultime energie e torniamo ad Areopoli, un percorso che, per ironia della sorte, affrontiamo ovviamente in salita.
Stremati troviamo una locanda in cui ci rifocilliamo il minimo possibile per non compromettere il resto del viaggio. Dobbiamo infatti raggiungere Gythio sulla costa orientale della penisola Messenica, circa venticinque chilometri ad est. Lì abbiamo già identificato un campeggio che è segnato sulla guida come “MOLTO BUONO” e che dovrebbe quindi essere ben servito, con ampie piazzole e soprattutto molta, molta ombra.
Quando ripartiamo l’acido lattico ha iniziato a devastare il nostro corpo aggredendo i muscoli delle gambe e delle braccia che a fatica reggono il nostro peso: l’ultima salita le ha indebolite a tal punto che a stento riusciamo a controllare il manubrio. Partiamo fiduciosi che il tragitto restante sarà più gradevole dovendo raggiungere il mare, ma contrariamente alle nostre iniziali aspettative, la strada si avvia nuovamente in salita.
Percorriamo solo qualche centinaio di metri in direzione dell’altopiano senza poter vedere come potrebbe proseguire la strada una volta raggiunto il crinale e siccome in questa giornata la sfortuna domina sghignazzante alle nostre spalle, ci rendiamo subito conto che è inutile sperare in una discesa dopo la curva.
Ci arrendiamo, gettiamo la spugna, ormai lo scoraggiamento ha tolto le ultime energie. Ci guardiamo spossati, ansimanti e pronti a svenire. “Autostop?”, chiedo a Marc. Annuisce. Solo che non passano macchine. “Torniamo ad Areopoli e vediamo se lì qualcuno ci può aiutare o dare un passaggio”, mi consiglia Marc.
Facciamo inversione e ripercorriamo il nostro breve tragitto fino al paese. Non c’è anima viva. Ad un tratto, girando senza meta per le poche vie, notiamo un taxi.
“Ma quanto ci costerà?” ci chiediamo.
“Ci costerà un occhio dalla testa! Piuttosto rinunciamo ad un pasto, ma io non me la sento più di affrontare un’altra salita!” Su questo siamo perfettamente d’accordo.
Individuiamo l’autista fermo su una veranda che ci osserva senza troppa attenzione. Con qualche gesto gli facciamo intendere che vorremmo usare il suo servizio, ma il suo sguardo sbigottito ci allarma. Come fargli capire che anche se dotati di due ruote, preferiremmo usare le sue più comode quattro ruote, soprattutto perché dotate di un motore?
In uno scambio convulsivo di segni tipici dei giocatori di “Tabu”, concludiamo alzando la bici mostrandogli che vorremmo metterla nel portabagagli. Finalmente comprende la nostra necessità. Incredulo per la richiesta insolita, l’autista acconsente con cortesia e dopo diversi tentativi di deporre entrambe le bici nel vano bagagli previo alleggerimento delle stesse togliendo tutto il corredo di borse, tende, zaini e altro, siamo pronti per partire.
Il giochetto del taxi ci costerà parecchio. Il prezzo concordato, anche se economico rispetto a quelli applicati alla nostra città, per le nostre misere condizioni finanziarie sono un salasso. D’altra parte, pur di beffare la sfortuna, siamo disposti a pagare.
La nostra arroganza viene però puntualmente punita: dopo aver percorso il tratto di strada che puntava all’altopiano, una volta superato il crinale, che poco prima avevamo quasi raggiunto prima di abbandonare l’impresa, la strada si inabissa in una sequenza di tornanti tutte in discesa. Praticamente percorreremo gli ultimi venti chilometri che ci separavano da Gythio con la consapevolezza di aver gettato alle ortiche i nostri fondi. Nelle nostre teste sentiamo uno strano sghignazzo ed una voce fioca che bisbiglia vigliacca: “Che la sfiga sia sempre con voi!”
Impieghiamo circa venti minuti per discendere dalla montagna nel silenzio più totale. L’autista è un signore sui quaranta o cinquant’anni. Un signore di poche parole, forse perché le difficoltà linguistiche rendono più ardua la comunicazione tra di noi. Ha una particolarità sulla quale in seguito scherzeremo spesso. È vittima di un tic curioso, che gli fa sobbalzare il bacino in avanti come in un atto amoroso. Standosene seduto sul suo sedile lo osserviamo mentre a più riprese e senza alcun preavviso saltella ad un ritmo irregolare. Io e Marc ci guardiamo trattenendo con fatica un sorriso traditore.
Raggiungiamo il campeggio, il Meltemi Camping, pochi chilometri da Gythio. Paghiamo profumatamente il tassista e ci inoltriamo nel lungo viale sterrato che taglia in due l’enorme terreno di proprietà del campeggio. Espletate le formalità iniziali, troviamo una piazzola finalmente in pianura e con poche radici e solo qualche sasso. Montiamo la tenda e facciamo la spesa nel piccolo ma ben rifornito supermercato del camping dove per la prima volta assaggiamo il rinomato yogurt greco.
Il campeggio è ben organizzato: alberi di ulivo e di carrube sono stati piantati con regolare distanza permettendo ordinate piazzole di varie misure, adatte sia per le tende sia per i grandi camper che occupano gran parte della zona “vista mare”. La reception, una casetta indipendente costruita sulla sinistra alla fine del viale sterrato, accoglie i clienti un ampio atrio e i gestori tedesco-olandesi non si risparmiano sorrisi e cortesia. Il caseggiato viene accompagnato da un edificio più grande, in cui convivono un piccolo ristorante ed il supermercato. Tutto attorno all’edificio un bel porticato ospita grandi tavoli di legno con panchine che si possono utilizzare liberamente per qualsiasi necessità. Percorrendo infine il vialetto e superando il recinto del campeggio si giunge alla spiaggia. Sabbia fine si estende per chilometri su entrambi i lati ed il mare taglia l’orizzonte. Tutto sommato abbiamo trovato un nuovo paradiso.
Non abbiamo la forza per fare un bagno, così ci corichiamo un po’ prima della grande sfida delle semifinali dei mondiali di calcio: Italia-Argentina.
Purtroppo la giornata funesta finisce nel peggiore dei modi con la nostra nazionale eliminata ai rigori e le beffe esplicite ed indimenticabili dei turisti tedeschi, che temevano la finale con
Per oggi basta, abbiamo grattato il fondo. Speriamo che il giorno seguente sarà migliore. Abbiamo comunque deciso di fermarci almeno un giorno per recuperare le forze.
COMMENTO:
Per la prima volta abbiamo avuto la consapevolezza che ad affrontare questa avventura siamo in tre, in quanto la “sfiga” è una compagna che ci scorta senza tregua. Cominciamo ad essere stanchi di questi continui sforzi e le interminabili sfide. Non era così che ci eravamo organizzati il viaggio. Inoltre, nonostante la tappa sembrava fosse abbordabile, abbiamo dovuto comunque riscoprire i nostri limiti fisici, portati allo stremo sia per la fatica, sia per le condizioni estreme dell’ambiente. Siamo esausti, fisicamente e mentalmente. Come affronteremo il resto del viaggio?